Il culto delle acque sacre: la Fonte di San Felice o Fonte Lattiera a Schiavi d'Abruzzo
- di Silvia Scorrano
A Schiavi di Abruzzo, nella frazione di San Martino, nascosta nel fitto della vegetazione si trova una sorgente d’acqua un tempo famosa per le sue proprietà. Dedicata a San Felice, protettore del latte materno, la sorgente era chiamata «fonte lattiera». Il ricordo di questa fonte lo troviamo negli scritti di Emiliano Giancristofaro:
«Qui convenivano dalla zona di Schiavi ed anche dai paesi del vicino Molise e della Puglia le donne che non potevano allattare i loro bambini, per bere l’acqua taumaturgica e far «ritornare» il latte. La pratica era ed è ritenuta valida sia per le donne che per gli animali, e consiste nel mangiare e bere alla fontana (la cui acqua, come quella delle altre sorgenti in questione, non presenta, stando alle informazioni avute, particolari proprietà farmacologiche) lasciandovi qualcosa: un capo di vestiario oppure un «panille di pane», e chi va subito dopo deve prendere quanto vi trova. La fama di «fonte lattiera» è assai diffusa nella zona per le sue virtù miracolose» (1) .
Inoltre, riprendendo le parole del Serafini, a detta degli anziani nei pressi della fontana era stato visto un serpente, chiamato in dialetto m’basturavacche (o pasturavacche) :
«Con il termine “pasturavacche” o simili ci si riferisce, nel dialetto abruzzese al Cervone (Elaphe quatuorlineata). Il Cervone è un elegante e assolutamente innocuo Colubride, che raggiunge le maggiori dimensioni tra i Rettili italiani (2,40 m.). E’ noto soprattutto per essere il protagonista, a Cocullo (AQ), dei festeggiamenti in onore di San Domenico ed in tale occasione la statua del santo viene portata in processione ricoperta di serpenti.Il Cervone è chiamato pasturavacche, in quanto la credenza popolare voleva che questo serpente fosse attirato dal latte delle vacche e delle capre al pascolo, e che per procurarselo si attaccasse alle mammelle degli animali, o addirittura lo leccasse dalle labbra sporche dei lattanti» (2).
Grazie ad una ricognizione sul campo fatta da Marco Cirulli e Bruno Zanna è stata ritrovata la fonte nascosta dalla vegetazione e semidistrutta.
Ma a San Felice, considerato protettore dei bambini, si legano anche altre tradizioni. Gennaro Finamore, ricorda che nella città di Chieti:
«Quando c’erano i cappuccini, le donne andavano da loro a chiedere per carità del pane e del prezzemolo. Quelli capivano subito il motivo, e soddisfacevano volentieri la domanda, perché s. Felice, cappuccino, è patrono dei bambini alle fasce. Con quel pane si faceva una zuppa, condita col prezzemolo, che faceva miracoli (nel far ritornare il latte)» (3) .
La vita del Santo
San Felice nacque nel 1515 in un piccolo centro agricolo di Cantalice (Rieti). Figlio di poveri contadini fu mandato all'età di otto anni (dodici secondo alcune fonti) a lavorare presso il nobile Marco Tullio Pichi di Cittaducale. Il ragazzo, con la sua vita di penitenza e preghiera, suscitò l’ammirazione del nobile che lo volle nel suo palazzo affinché fosse di esempio ai figli. Felice ben presto si rese protagonista di episodi miracolosi; si narra, ad esempio, che fu visto contemporaneamente in chiesa e nei campi. Anche la sua consacrazione sarebbe avvenuta grazie all'intervento divino. Un giorno, infatti, gli apparve un angelo che gli comunicò il desiderio del Signore di vederlo con l’abito dei cappuccini. Il giovane, pur sensibile alla richiesta, indugiava sentendosi vincolato dai suoi impegni lavorativi:
Iddio, che vuole prontezza nel corrispondere alle sue chiamate con un aiuto paterno sì, ma alquanto severo, lo fece avvertito di quel suo indugio, permettendogli uno stranissimo caso, con cui fu ridotto ad un sommo pericolo della vita(4).
Infatti, mentre cercava di addomesticare due giovani buoi, questi lo travolsero e il vomero, a cui erano attaccati, gli passò sopra lacerando le vesti ma non il corpo.
Scampato ch'ebbe, un sì formidabile pericolo, si pose toso in ginocchione, e voltatosi con gli occhi pieni di lagrime al Cielo, disse: Vi ringrazio pietosissimo Signore di tanta vostra misericordia usatami; veramente in giusta punizione di tanta, mia infingardaggine nello corrispondere alla vostra santa vocazione io doveva, non che essere lacerato, e morto, ma anzi nel fondo dell’Inferno sepolto; vi addimando perciò perdono di una sì indegna mia ingratitudine, e fermamente propongo di quanto prima effettuare quel tanto mi comandate, coll'entrare il più tosto nel sacro Ordine dei Cappuccini. (4)
Comunicato al padrone il desiderio di pronunciare i voti, dopo aver donato il proprio salario ai poveri, si avviò verso il convento dei Cappuccini. Fece l’anno di noviziato ad Anticoli di Campagna (l’odierna Fiuggi), nella primavera del 1544. Attraversò un periodo di malattia in cui una febbricola e un indebolimento generale lo ridussero in fin di vita, ma ciò non gli impedì di consacrare la propria vita a Dio; Felice, infatti, il 18 maggio del 1545 fece i tre voti di obbedienza, povertà e castità. Dimorò nei conventi di Tivoli, di Viterbo e dell’Aquila e, dal 1547, in quello romano di San Niccolò dei Porci (ora Santa Croce dei Lucchesi), ai piedi del Quirinale, convento principale dell’Ordine, nel quale Felice assunse l’umile compito di questuante del pane e, in seguito, del vino e dell’olio. Il 30 aprile del 1587 si ammalò gravemente e il 18 maggio morì.
Alla morte di Felice, nel monastero vi fu molto stupore nel vedere la moltitudine di fedeli che si recava a venerare il corpo dell’umile questuante e che, insieme alla nobiltà romana, ai cardinali e allo stesso Papa, ne proclamavano la santità. I confratelli lo ritenevano un buon religioso come tanti altri. Per quarant'anni aveva girato per le vie di Roma, con un atteggiamento umile e con la corona del rosario in mano; amava farsi chiamare “l’asino dei Cappuccini” e si auto giudicava come il più grande peccatore del mondo, indegno del nome di religioso. Subito dopo il decesso, per volere di Papa Sisto V, venne istruito il processo di canonizzazione che si svolse tra il 10 giugno e il 10 novembre del 1587; Felice fu beatificato sotto Papa Urbano VIII, il 1 ottobre del 1625, e canonizzato durante il pontificato di Papa Clemente XI, il 22 maggio del 1712. Le sue reliquie sono venerate a Roma nella chiesa di Santa Maria della Concezione. Durante il processo di beatificazione gli furono attribuite numerose doti tra cui più volte venne citata la capacità di prevedere il futuro: parlò del trionfo dei cristiani contro i Turchi a Lepanto nel 1571, prima ancora che la notizia giungesse a Roma; a Papa Sisto V predisse il papato, ad altri la vocazione religiosa o l’arrivo di una morte improvvisa. Negli anni successivi alla sua morte dalla tomba sgorgò un liquido chiaro e denso che venne raccolto da alcune suore e usato per guarire i malati. Rispettato e amato dai confratelli molti, entrando nell'Ordine, ne scelsero il nome: nel 1650, tra i circa 11.000 cappuccini d’Italia, 277 si chiamavano Felice e, fino al 1966, il Necrologio della provincia Romana registrava 217 frati che ne portavano il nome.
Schiavi d'Abruzzo
Localizzato alle pendici del monte Pizzuto, a poca distanza dall'antica Terventum (Trivento) e da Pietrabbondante, Schiavi di Abruzzo fu abitato dalla tribù dei Sanniti Pentri, che vi aveva edificato un importante complesso cultuale. In epoca Romana il centro potrebbe essere stato municipio, ascritto alla tribù Voltrina.
Ai tempi dei Normanni, Schiavi fu feudo di Roberto da Sclavo, conte di Cajazzo da cui forse ne avrebbe derivato il nome. Successivamente, figura tra i possedimenti dell'Abbazia di san Giovanni in Venere e di diverse famiglie, gli ultimi, nel secolo XVIII, furono i Caracciolo principi di Sanbuono. Per quanto riguarda il toponimo certo è che la località assunse il nome di Sclavi già prima dell’anno 1000 come risulta da alcuni atti conservati nel Monastero di Monte Cassino. Altre ipotesi sull’origine del toponimo Sclavi fanno riferimento alla morfologia del territorio (cluens dal verbo cluere vale a dire colare liquidi) oppure all’epiteto sclavus, dal basso latino, che già intorno al VI secolo indicava il commercio di popolazioni balcaniche impiegate come servitori. L'aggiunta del nome "Abruzzo" si è avuta solamente dopo l'Unità d'Italia, col Regio Decreto n. 1140 del 22 gennaio 1863
Note bibliografiche:
(1) Giancristofaro E., Totemájje. Viaggio nella cultura popolare abruzzese, Lanciano, Rocco Carabba Editore, 1978, p.186.
(2) Serafini Ivan, Fonte Lattiera di Schiavi di Abruzzo e “lu pasturavacche”, 18/6/2015
http://www.altovastese.it/cultura/fonte-lattiera-di-schiavi-di-abruzzo-e-lu-pasturavacche/
(3) Finamore G., Tradizioni popolari Abruzzesi, Adelmo Polla Editore, 1997, p. 161
(4) De Valenza M., Ristretto della vita miracoli, canonizzazione di S. Felice de Porri, da Cantalice, Mi-lano, Giuseppe Pandolfo Malatesta, 1712, pp. 17-18
Foto: gentile concessione Marco Cirulli