Sylvanus da Trecce Nere di Domenico Ciampoli

di Silvia Scorrano

 

Mentre la gregge di capracce zazzerute e di pecore nere brucava l'erba sugli sfaldamenti dell'altopiano verde, a' pie delle rocce bigie e tra i cespuglioni di prunai, egli se ne stava steso bocconi sul vertice d'uno sprone della montagna e guardava giù nello sprofondo della vallata, come spiasse la pesta della selvaggina.
Il sole alto lanciava giù raggi da saette; ma il pecoraro non doveva sentirseli penetrare nella casacca di pelle caprina o piombare sul cappellaccio di trucioli: con le pugna vellose si reggeva il mento, e guardava, guardava. Dall'abisso che dirocciava giù di greppo in greppo salivano folate d'aria fresca cogli odori acuti della boscaglia verdechiuso; giungevano i confusi mormorii delle acque vive che rampollavano dalle rupi che scrosciavano in cascatelle ne' viottoloni sassosi; lo scampanar delle vacche per le praterie lontane, e tratto tratto lo scoppiare di mine che si centuplicava per le gole in lunga serie di echi. Il pecoraro vedeva che la vallata da qualche tempo non era più la stessa. Una volta, laggiù, scorreva la fiumara libera e larga, ombreggiata di salicioni, di pioppeti e d'erbe molli; si guadava a piedi scalzi, su macigni lisci posti in fila. Sulla strada maestra bianca, che la fiancheggia, compariva sul mezzogiorno la diligenza con la posta tra un nuvolo di polvere e scompariva poi subito sulle giravolte del monte opposto. Qualche tugurio si perdeva negli argini di creta e di roste, e lanciava per l'aria una bella spira di fumo turchiniccio. Vagavano pascolando, torme di bufali e di cavalle, e i pastori e le mandriane sedevano sotto i cerri secolari parlando di amore, o giocavano a piastrelle, tiravano di fionda, pescavano con rezzole ed ami. Talora dalle falde montane, di mezzo alle ombre di roveri e querce, uscivano canti villerecci, lunghi, malinconici, dolci, non interrotti dal nitrire dei puledri e dal muggito dei tori. Una pace tranquilla, serena, si respirava coll'aria mite ed anche quando cambiava stagione ed al fogliame di maggio succedevano le ondate bionde di spiche, alle spiche le gioconde scorazzate per le vigne e alla vendemmia le nevi, i geli e le tramontane, la quiete restava sempre lungo quel lembo di montagna. Ora la quiete non v'è più. Il pecoraro vide un giorno laggiù dei signori piantare cannucce, misurare terreni, guardare in certi strumenti a trespoli, e poi andare, venire, darsi un gran da fare. Che volevano costoro? O la vallata non è nostra? E che armeggi sono quelli? Tutta la notte egli pensò a quei signori. — Se tornano, assaggeranno le fiondate, — conchiuse. Ma le fiondate restarono nella cordicella, perché, poco dopo, quei signori tornarono con un esercito di operai, di zappatori e di femmine e si dettero a fare una casa del diavolo. La fiumara fu ristretta tanto che pareva un canaletto di mulino; gli alberi rimasti sul limaccio asciutto, buttati giù, servirono alle dighe. Sulla strada maestra si fermavano spesso de' traini co' ronzoni da' campanelli; e portavano strani ordegni con ruote, tubi, cordami. Le capannucce andarono in fuoco e vennero su case di tavole non mai viste, con tetti aguzzi e lucenti e una bandiera sul comignolo. Accanto alla petraia del guado, da una parte e dall'altra si scavarono fossi profondi; gli armenti, le mandriane, i pastori, cacciati via, fuggirono sui dossi, non si vide più che un brulicare di gentaccia dai calzoni lunghi, che spartiti a gruppi, a brigate, a torme travagliavano la valle cosi che non v'era più un filo d'erba pulito, come un branco di lupi sul corpo di un cavallo caduto. Gli uni scavavano mine e facevano saltare in mille sverze le rocce, gli altri riempivano di mattoni le fosse del guado e rizzavano le pile d'un ponte: costoro colmavano dugaie, coloro scalpellavano pietre; le donne, quelle mucche paesane, portavano di su e di giù materiali da fabbrica e sterramenti, cantando a cuore aperto. Il pecoraro non sapeva staccare gli occhi di laggiù. Ogni schianto di mina, ogni colpo di piccone, ogni nota di stornello gli pareva una coltellata fra una costola e l'altra. Quei luoghi, cosi malconci da quella gente, egli li conosceva come la palma della mano, sasso per sasso, erba per erba, e sentiva una gran pena a vederli devastare cosi. Ad istanti la pena diventava rabbia e stringeva i pugni, crocchiava i denti e brandiva la zagaglia... Ma erano tanti coloro!... E restava come istupidito a guardare ancora. Che volevano fare laggiù? E chi li faceva padroni di quel luogo? E perché i nostri stessi contadini li aiutavano?... Una volta si rizzò di scatto: raccolse un sasso, l'adattò alla fionda, la giro per l'aria... e via. Ne seguì il corso, e com'ebbe visto stramazzare un operaio, si ripose bocconi, ridendo d'un riso selvaggio. Quell’operaio rotolava una dopo l'altra le pietre di una vecchia casuccia, che poi raccolte dalle lavoratrici andavano a riempiere il terreno impozzato; e quella casuccia, un giorno, era stata del pecoraro. Ora egli l'amava come si amano le vecchie nonne; quando scendeva nella valle, godeva di andarsi a sedere sur un largo macigno dove s'erano seduti a loro volta il babbo e la mamma a guardare le stelle ed a predire il bel tempo. L'erica trionfatrice ne aveva invaso le mura crollate; il musco ne ricamava le pareti; le lucertole e i ramarri strisciavano fra le erbacce del pian terreno: eppure egli vi si sentiva bene, come dopo una lunga giornata di lavoro, si compiaceva all'ombra d'un ontano. Veder disfare anche quelle povere mura era troppo, e aveva tirato.... 

—Ecco, — pensava intanto, — la povera gente perde tutto; muore, e, come le bestie, non lascia nulla di sè. E si ricordava la storia raccontatagli dal babbo del come aveva costrutta quella casuccia: il babbo era povero come uno spino secco, e come uno spino ruba un fiocco di lana alla pecora che passa, egli aveva rubata la moglie alla mamma di lei che gliela negava. Vissero per qualche tempo come cani randagi, pei fitti del bosco, nelle caverne della montagna, cibandosi di pomi e di melazze; poi, coi primi nebbioni dell'autunno, pensarono a costruirsi una casuccia; lei raccoglieva le pietre, lui scavava la terra, alzava i muri col fango, le stoppie e le gramigne: lavoravano giorno e notte e com'ebbero stipato pel bosco, ne foggiarono il tetto con rami secchi e foglie e canne e vimini. Il loro primo, unico letto fu un alto strato di foglie secche; la prima porta della capanna fu una siepe di pruni aguzzi, come i denti del cane, che faceva loro la guardia. Mangiavano quel che Dio voleva e spesso Dio voleva che non mangiassero nulla; ma si volevano bene e campavano la vita come belve della foresta. Almeno non conoscevano i padroni. Oh, i padroni!... Dopo un anno, su quel povero letto di foglie secche, nacque un bambino, proprio di Natale; ma in quel presepio non ebbe l'asino e il bue che lo riscaldasse e ebbe solo il magro petto della mamma. Il babbo allora usciva come un lupo alla caccia: restava lungamente fuori, e non tornava mai con le mani vuote: una volta in mancanza di meglio, tirò sopra un girifalco e quando l’ebbe sparato gli trovò nel gozzo un serpentello che sguizzava ancora. Ma di girifalchi non si vive, e il pane duro dovette guadagnarselo coll'andare a giornata, lui che sino allora era vissuto libero come uno sparviero. Il bambino, che doveva poi diventare Masu il pecoraro, cresceva succhiando più sangue che latte, e succhia e succhia, la mamma andava mancando come un'alberella all'oscuro, ma si confortava nel vedere il figlio venir su paffuto e forte, tale e quale l'aveva desiderato prima di fuggirsene col marito. Il babbo talvolta tornava sulla sera tutto scuro, come un nuvolone zeppo di burrasca; gettava in un canto il bidente e non rispondeva neppure alle parole della mamma. Era un villanzone ossuto ed alto, vero sangue montanaro, e avvezzo ai picchi, soffocava nella pianura; ma in grazia della moglie sarebbe andato all'inferno a piedi scalzi. Quando non c'era lavoro, che la neve copriva tutto, egli pensava d'andarsene lontano, come gli altri, al Tavoliere o alle Paludi Pontine; ma non si moveva mai, chè la moglie lo guardava con certi occhi da Addolorata lucenti lucenti. Quelle erano giornate lunghe, fredde, buie; la donna teneva sempre vivo un focherello pel bambino; ma il fumo l'accecava, e se aprivano l’uscio a farlo uscire, i buffi di tramontana vi spingevano il nevischio. Il pane di granturco, una minestra di cicerchia giungevano radi: al solito si viveva di castagne selvatiche o di patate rosse, raccattate pei boschi o comprate con la vendita d'un lepre colto al laccio. Non si sperava aiuto da nessuno: la solitudine era desolata come la campagna nuda: per le altre capanne la miseria nera assiderava i poverelli o li spingeva al ladroneccio. Le prime voci di briganti si facevano udire insieme agli echi delle schioppettate. — Scannano i signori — aveva detto un giorno il babbo rientrando nella capanna: — e ora saremo tutti eguali, che laggiù, lontano, fanno la repubblica — e s'era messo ad affilare la scure sulla cote, mentre la mamma piangeva zitto zitto. Poi, provando l'affilatura sui calli delle mani, aveva soggiunto: — Tanu s'e dato in campagna per vendicare la sorella, sai? quella che si annegò, come una cagna, nel pantano di Naccio, ed era gravida del padrone; e Beppe Canu gli ha fatto compagnia per non essere più colono, ch'è meglio fare il brigante e dannarsi l'anima. Che ci resta? La disperazione. Ci rubano tutto: le greggi, i ricolti, le figlie, le mogli; e se fiati, ti fanno mettere in prigione di ladri, come al vecchio Nicu, che il figlio pure s'è fatto brigante e farà salsicce del cuore del padrone. 

Tutto il resto del giorno non parlò, la sera scomparve, ne si rivide più che raramente come le comete. Poi non tornò più mai. L'avranno ammazzato in qualche macchione o sarà partito per l'America. Il bambino divenne grande, la mamma tisica: oramai egli si era buttato a fare il pecoraro per dare un po' di latte alla mamma, che non reggeva altro: e non si allontanava un tiro di sasso da lei per paura di vedersela volar via, come un piccione bianco, e restar solo nel mondo come un figlio della ventura; quella buona mamma che aspettava il babbo ogni notte ginocchioni, a piangere e a pregare, e viveva di paura, come chi ha fatto un omicidio. Ma il babbo non veniva. Una sera, il sole se ne andava ed ella volle salire sul vertice d'un ciglione della montagna per guardare lontano e vedere se tornasse: bisognò reggerla, portarla sulle spalle: era leggiera più di una piuma. Come arrivò sulla croce de’ ladri, là, poco lontano dov'è il pecoraro adesso, si fermò, si sedette e sorrise tristamente, guardando la vallata: — Non viene, — disse sospirando; poi guardando negli occhi il figliuolo: — Mettimi qui sotto la croce se moro, gli disse. E il figliuolo si asciugò gli occhi, che piangeva come una grondaia, e se ne andò a mungere la pecora pezzata pel latte fresco; ma il latte fresco se lo bevve la terra, perché quando egli venne vicino alla mamma, la mamma era un pezzo di ghiaccio e non parlava più, solo guardava cogli occhi spenti lontano lontano per vedere se tornasse il marito. Ed egli la chiamò e pianse e si dette dei pugni in capo; ma tutto intorno era un gran silenzio scuro e pauroso. Laggiù, ne' villaggi suonava lentamente avemmaria: l'anima della mamma se n'era volata con uno di quei rintocchi nel paradiso. Egli le stette accanto ginocchioni per un pezzo e non s'accorgeva del gregge che gli si era riunito intorno: poi sollevando il capo vide la faccia della mamma bianca bianca, lucente: la montagna brillava anch'essa con la riviera laggiù che pareva avesse nel mezzo un bel ponte d'argento. Era la luna che penzolava sul cielo serenissimo, profondo, buio. Stese la mamma sull'erba, con un capezzale di timo e rosmarino, le chiuse gli occhi, le incrociò le mani sul petto; e a balzelloni, come un ubriaco, andò a scavare la fossa sotto la croce de' ladri. Svelleva i sassi con le mani, li scalzava con la zagaglia, e poi li faceva rotolare per le rupi scheggiate: provava come un conforto in quel lavoro rude, selvaggio: talvolta alzava il capo a guardare la morta: ella era sempre là, come addormentata, con la luna di fronte. I colpi secchi della zagaglia sul macigno risuonavano per quel vasto silenzio come stridi di falchi, e gli parevano tanti pugni sul petto. Era dunque morta la mamma? Morta? E che significa morire? E gli parve che morire fosse non avere più terra sotto i piedi e cadere, cadere, cadere per uno spazio scuro, nero, immenso silenzioso. In un punto ebbe paura: gli si arricciarono le carni e i capelli: tutte le bieche fantasie de' montanari gli si rizzarono intorno negli scherzi d'ombre e di luce; la montagna si popolò di spettri, ed egli tremante corse vicino alla mamma, facendosi il segno della croce, come un bambino. Ma non era nulla; tornò alla fossa, e scavò ancora; giunse al sasso vivo che pareva marmo liscio. Lo spazzò con le mani; sradicò le erbacce che pendevano sull'orlo del cavo e si mise a legare due rami di quercia in croce, coperti di mortella. Cosi, seduto accanto alla mamma, aspettò l'alba; la brezza notturna gli mordeva il viso e pareva gelarsi al raggio della luna; egli credette che la mamma potesse ancora soffrire; si tolse il gabbano e la coperse. Pensava che i morti, seppelliti di notte, non vedono la luce eterna. Come il cielo divenne bianco e la luna andò sotto, fece nella fossa un bel letto d'erba profumata, e vi stese la mamma, la sua povera mamma; poi si accoccolò per terra e non seppe fare più nulla. Fu la Bastarda, la quale venne lassù con le pecore, che le coperse la faccia coi fiori e col grembiule, e poi la sotterrò; rimesse a posto la croce de' ladri; e condusse via quel ragazzaccio più morto che vivo, che le pecore se gli erano sbandate e ci volle tutta la giornata a rimbrancarle, e lo tenne la notte nella Grotta Nera. Ed egli da quella notte non tornò più a vivere nella capanna paterna, dove non era più la mamma e dove la tramontana fischiava sempre portando via le frasche del tetto e le foglie secche sulle quali egli era nato. Ora quegli altri laggiù ne portano via le ultime pietre e a Masu il pecoraro non rimane che cielo a vedere, e terra a camminare. Oh, Masu il pecoraro piangeva, là, sul macigno muscoso nel ripensare ai giorni amari e nel vedere la sua bella vallata cambiar di faccia. La sua bella vallata era proprio sua, che vi era nato e cresciuto e vi aveva sofferto e perduto i parenti, e nessuno più di lui lo amava quel maledetto luogo, dove ogni pietra gli era cara come tanti pezzi di pane. Quando vide tolta via l’ultima pietra della sua casuccia, si rizzò come una statua sull’abisso, lanciò una bestemmia contro quel gentame, e si perdette per la boscaglia, urlando come un lupo e chiamando a gran voce la Bastarda.

 

Alcune note biografiche su Domenico Ciampoli

https://www.acquesacre.it/index.php/it/47-ultime-news/207-la-maggiorana-di-domenico-ciampoli

 

Trecce Nere 

https://www.acquesacre.it/index.php/it/47-ultime-news/215-trecce-nere-di-domenico-ciampoli

 

Il lavoro della donna in montagna

https://www.acquesacre.it/index.php/it/libri/brani/214-trecce-nere

Foto: Tito Iafolla