San Giovanni all'Orfento raccontato da Paolo Sanelli. Tratto da "I miei sogni sono stati tutti sulla Maiella" D'Abruzzo Edizioni Menabò.

di Silvia Scorrano

Maggiormente si racconta della storia di San Giovanni, che ha trasformato una grotta in una chiesa. San Giovanni si era sistemato bene, aveva scelto una grotta nella valle dell'Orfento per fare le sue preghiere, stava magnificamente e purtroppo faceva

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Storiella vana di Domenico Ciampoli

di Acque Sacre

Dalla raccolta  Fiori di Monte di Domenico Ciampoli abbiamo estrapolato Storiella vana. L'Autore, tornato in famiglia, in un suo pellegrinare incontra un'anziana del luogo,....

Vi racconterò una pietosa istoria come me la narrò una vecchia di queste campagne. É un fatto che mi commosse fino alle lagrime. Quella vecchietta n’era stata gran parte, e ne sentiva in cuore una desolazione che certo si sarebbe detto spasimo, s’ella non avesse pianto e trovato così un po’ di conforto. Ero tornato qui da pochi giorni: le cure della madre, le attenzioni di famiglia, non eran valse a tormi di corpo quella certa uggia, quel malumore, quel disgusto, che prende in fine il nome di noia, quando, lasciate le allegre compagnie e le clamorose baraonde giovanili, si torna nella serena pace di un paesello, ove tutti vi conoscono, tutti vi dànno il ben tornato; ove si vive per vivere, senza mai dare un pensiero a quel gran mondo, che sarebbe fortuna non conoscere mai....

Riportiamo le prime righe della novella il resto può essere letto in versione pdf cliccando su STORIELLA-VANA.pdf

Come foto abbiamo scelto Atessa paese natale di Domenico Ciampoli, la foto risale al 1938, quando ormai lo scrittore era morto da circa10 anni. 

Foto: gentile concessione archivio fotografico della pagina Facebook: Memories: officina dei ricordi e delle immagini

Articoli su Domenico Ciampoli

La Strega da Trecce nere di Domenico Ciampoli

La casa bruciata tratto da Fiori di monte

Storia d\'una croce da Fiori di monte di Domenico Ciampoli

Fiori di monte, prefazione di Petitto Di Longano

La Mietitrice di Domenico Ciampoli

Sylvanus da Trecce Nere di Domenico Ciampoli

Il lavoro della donna nella montagna autunnale tratto dal racconto Trecce Nere di Domenico Ciampoli

La produzione letteraria di Domenico Ciampoli

La Maggiorana di Domenico Ciampoli

Cicuta di Domenico Ciampoli

Trecce Nere

 

La Strega succia il sangue di Antonio De NIno

di Sissi Ardesia

Che la strega va dai bambini a succhiare il sangue già lo sappiamo, anche Donato Cece, in La Strega da Trecce nere di Domenico Ciampoli, quando vide il suo bimbo dimagrire a vista d'occhio si era appostato per sette notti.... ma purtroppo per lui la strega era in casa. Ora proponiamo un'altra testimonianza, questa volta di Antonio De Nino   


LXIV.

LA STREGA SUCCIA IL SANGUE.

Un uomo veramente religioso non ha superstizioni: ma la generalità degli uomini hanno superstizioni: dunque in generale gli uomini non sono veramente religiosi.
Sofisma!
Io non faccio un libro di polemica. Enuncio una verità; e, quando mi è contestata, mi ritiro.
Chi può ridire gli affanni di una povera madre che di giorno in giorno vede dimagrare il suo bambino ? Ella crede che siano le streghe e vuole liberarlo dalle tristacce. Confabula perciò con tutte le donne del vicinato; va dal prete e fa recitare il vangelo con la stola sul capo del bambino; torna a casa, e appicca nella gradinata la croce di cera, benedetta nel giorno dell'Ascensione; piglia un po' di sale, lo lega in una pezzuola e appende l'amuleto al collo della creatura; taglia una ciocca di capelli al bambino e la brucia, perchè il fumo.... chi sa! mette l'acqua santa ai gangheri delle imposte e recita tre volte ad alta voce il Credo. Ma la creatura va indietro.
Entra finalmente in campo il marito: Voglio fare le sette notti (le sette veglie notturne); voglio scoprire la brutta bestia.... corpo...! voglio afferrarla pei capelli...!
A mezzanotte la strega si scarmiglia le chiome, alza un mattone, scalza un vasello e si unge. Ed ecco comparire un caprone. Ella vi monta su e dice: — Ad acqua, a neve, a vento, portami alla noce di Benevento. —
Altre streghe (ad Ofena) tengono una scatola dentro di cui sta una scatoletta e, più dentro, uno scatolino contenente una cert' acquerella magica. La scatola si apre in virtù di certe parole turchine che sa la sola strega. Quando poi la strega si è fatta vecchia, consegna la triplice scatola al confessore e allora accade un prodigio. Messa la scatola sotterra, a grande profondità, te la vedi ricomparire innanzi gli occhi: buttata al fiume, riviene a galla: circondata di fiamme, scappa illesa come un razzo. Il solo papa la può distruggere! 
Dopo la ridda beneventana, la strega va per le case succiando il sangue dei bambini; e i bambini dimagrano dimagrano e poi muoiono. Essa va pure dove un padre, disperato della salute del figlio, sta facendo le sette notti; la sta aspettando per coglierla in fallo. Una pignatta rovesciata copre una lucerna accesa. Se la strega si potesse ferire sia pure leggermente, anche con uno spillo,ella sarebbe scoperta.
Si sente un rumore.... È la strega! — Il povero padre che veglia, alza la pignatta, corre appresso alla strega, gli pare e non gli pare.... Ma la strega se n' è uscita pel buco della chiave! 
La mattina egli va in cerca di una maliarda. 
— Liberami un'anima innocente dalla malignità della strega. — La maliarda assicura che non ci vuol molto: — Ammazza un cane o un gatto, dice ella; e mettilo dietro la porta di casa. La strega non può entrare, se prima non abbia contati tutti i peli della bestia morta. Intanto che conta, si fa giorno; e la birbante è costretta a ritirarsi, perchè, se mai la non facesse a tempo a fuggire la luce del sole, la ritroverebbero nuda per le strade!

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San Terenziano visita Sant'Onofrio

di Acque Sacre

Effettivamente quando si sale il sentiero che conduce all'Eremo di Sant'Onofrio, non possiamo che appoggiare le lamentele di San Terenziano.... ma vi è sempre una divina provvidenza, ognuno scelga la sua, il panorama è già una ricompensa

V.
SAN TERENZIANO VISITA SANT' ONOFRIO. 

Terenziano faceva penitenza in un eremo rimpetto a Péntima; Onofrio in un altro, sopra la Badia Morronese, dove fece penitenza anche San Pietro Celestino. Un giorno d' estate, Terenziano andò a fare una visita al compagno. Saliva le balze del Morrone a piedi scalzi. Giunto all' eremo, cominciò a lagnarsi con Onofrio, dicendo che il caldo gli aveva bruciato i piedi; e conchiuse: — Povera gente! come farà ? con questa secca si sarà bruciato ogni cosa. Il sole non dovrebbe essere così cocente! — Onofrio, per tutta risposta, fece una levata di spalle. Poi, di nascosto, gettò un pugno di grano dentro un forno che ardeva con violenza. Quando Terenziano s' accorse che il forno ardeva, disse ad Onofrio : — Anche questo ci mancava! non basta il caldo del sole! — E, dicendo questo, si avvicinò alla bocca del forno, e vide che tra le vampe ondeggiavano le spighe di grano maturo. Se ne maravigliò, e ne volle sapere il perchè. Onofrio gli disse : — Perchè ti maravigli? Poco fa, ti lamentavi del troppo caldo e della siccità e della carestia. Ma non vedi che Iddio può far crescere e maturare il grano anche in mezzo al fuoco ? — Terenziano abbassò il capo, e adorò la divina provvidenza.

La Fiaba raccontata un tempo a Sulmona e nei dintorni, è stata tratta da Antonio De Nino, Usi e Costumi Abruzzesi, vol. IV, Firenze, Tipografia Barbera, 1883, pp. 160-161.

Gli eremi - Paolo Sanelli, I miei sogni sono stati tutti sulla Maiella

di Silvia Scorrano

A quei tempi si andava per eremi, che nella nostra zona ce ne sono veramente tanti. I nostri nonni ed i nostri padri e le nostre nonne e le nostre mamme, avevano tanta devozione per questi eremi. Anche durante le mie uscite con le pecore, quandoandavo a pascolare, passavo spesso vicino a questi eremi: Sant’Angelo, San Benedetto, Sant’Onofrio, Santo Spirito, San Giovanni, San Bartolomeo, Sant’Antonio e Santa Maria. Raccontavano i nostri nonni, che in certi tempi molto lontani, nella valle di Santo Spirito, nella Valle dell’Orfento e nella valle Giumentina, c’erano sette fratelli e una sorella, tutti eremiti che poi hanno costruitogli eremi per far penitenza. 
[….] Nella mia età, quando ero piccolo, a San Bartolomeo c’erano ancora degli eremiti e la gente andava per devozione su queste montagne. Gli eremiti erano pure a Santo Spirito ed i contadini gli offrivano un pezzo di pane e un po’ di formaggio, maggiormente d’inverno questi eremiti facevano compassione, ma avevano le facce come quelle dei santi. A questi eremi si facevano tanti pellegrinaggi, partecipava tutto il paese ed ancora oggi si fanno. In quei tempi i pellegrinaggi li facevano solo i “vicinati”, ora vengono da lontano e vengono pure i turisti perché questi eremi sono veramente santi e belli. Tutti questi eremi li ha fondati quel santo di Celestino V, che aveva pregato su queste montagne per tanti anni: prima si credeva alla fede. 

 

Paolo Sanelli, I miei sogni sono stati tutti sulla Maiella. Ricordi di un pastore raccolti ed elaborati da Marco G. Manilla, Editore: D'Abruzzo Libri Edizioni Menabò, p. 81

Sylvanus da Trecce Nere di Domenico Ciampoli

di Silvia Scorrano

 

Mentre la gregge di capracce zazzerute e di pecore nere brucava l'erba sugli sfaldamenti dell'altopiano verde, a' pie delle rocce bigie e tra i cespuglioni di prunai, egli se ne stava steso bocconi sul vertice d'uno sprone della montagna e guardava giù nello sprofondo della vallata, come spiasse la pesta della selvaggina.
Il sole alto lanciava giù raggi da saette; ma il pecoraro non doveva sentirseli penetrare nella casacca di pelle caprina o piombare sul cappellaccio di trucioli: con le pugna vellose si reggeva il mento, e guardava, guardava. Dall'abisso che dirocciava giù di greppo in greppo salivano folate d'aria fresca cogli odori acuti della boscaglia verdechiuso; giungevano i confusi mormorii delle acque vive che rampollavano dalle rupi che scrosciavano in cascatelle ne' viottoloni sassosi; lo scampanar delle vacche per le praterie lontane, e tratto tratto lo scoppiare di mine che si centuplicava per le gole in lunga serie di echi. Il pecoraro vedeva che la vallata da qualche tempo non era più la stessa. Una volta, laggiù, scorreva la fiumara libera e larga, ombreggiata di salicioni, di pioppeti e d'erbe molli; si guadava a piedi scalzi, su macigni lisci posti in fila. Sulla strada maestra bianca, che la fiancheggia, compariva sul mezzogiorno la diligenza con la posta tra un nuvolo di polvere e scompariva poi subito sulle giravolte del monte opposto. Qualche tugurio si perdeva negli argini di creta e di roste, e lanciava per l'aria una bella spira di fumo turchiniccio. Vagavano pascolando, torme di bufali e di cavalle, e i pastori e le mandriane sedevano sotto i cerri secolari parlando di amore, o giocavano a piastrelle, tiravano di fionda, pescavano con rezzole ed ami. Talora dalle falde montane, di mezzo alle ombre di roveri e querce, uscivano canti villerecci, lunghi, malinconici, dolci, non interrotti dal nitrire dei puledri e dal muggito dei tori. Una pace tranquilla, serena, si respirava coll'aria mite ed anche quando cambiava stagione ed al fogliame di maggio succedevano le ondate bionde di spiche, alle spiche le gioconde scorazzate per le vigne e alla vendemmia le nevi, i geli e le tramontane, la quiete restava sempre lungo quel lembo di montagna. Ora la quiete non v'è più. Il pecoraro vide un giorno laggiù dei signori piantare cannucce, misurare terreni, guardare in certi strumenti a trespoli, e poi andare, venire, darsi un gran da fare. Che volevano costoro? O la vallata non è nostra? E che armeggi sono quelli? Tutta la notte egli pensò a quei signori. — Se tornano, assaggeranno le fiondate, — conchiuse. Ma le fiondate restarono nella cordicella, perché, poco dopo, quei signori tornarono con un esercito di operai, di zappatori e di femmine e si dettero a fare una casa del diavolo. La fiumara fu ristretta tanto che pareva un canaletto di mulino; gli alberi rimasti sul limaccio asciutto, buttati giù, servirono alle dighe. Sulla strada maestra si fermavano spesso de' traini co' ronzoni da' campanelli; e portavano strani ordegni con ruote, tubi, cordami. Le capannucce andarono in fuoco e vennero su case di tavole non mai viste, con tetti aguzzi e lucenti e una bandiera sul comignolo. Accanto alla petraia del guado, da una parte e dall'altra si scavarono fossi profondi; gli armenti, le mandriane, i pastori, cacciati via, fuggirono sui dossi, non si vide più che un brulicare di gentaccia dai calzoni lunghi, che spartiti a gruppi, a brigate, a torme travagliavano la valle cosi che non v'era più un filo d'erba pulito, come un branco di lupi sul corpo di un cavallo caduto. Gli uni scavavano mine e facevano saltare in mille sverze le rocce, gli altri riempivano di mattoni le fosse del guado e rizzavano le pile d'un ponte: costoro colmavano dugaie, coloro scalpellavano pietre; le donne, quelle mucche paesane, portavano di su e di giù materiali da fabbrica e sterramenti, cantando a cuore aperto. Il pecoraro non sapeva staccare gli occhi di laggiù. Ogni schianto di mina, ogni colpo di piccone, ogni nota di stornello gli pareva una coltellata fra una costola e l'altra. Quei luoghi, cosi malconci da quella gente, egli li conosceva come la palma della mano, sasso per sasso, erba per erba, e sentiva una gran pena a vederli devastare cosi. Ad istanti la pena diventava rabbia e stringeva i pugni, crocchiava i denti e brandiva la zagaglia... Ma erano tanti coloro!... E restava come istupidito a guardare ancora. Che volevano fare laggiù? E chi li faceva padroni di quel luogo? E perché i nostri stessi contadini li aiutavano?... Una volta si rizzò di scatto: raccolse un sasso, l'adattò alla fionda, la giro per l'aria... e via. Ne seguì il corso, e com'ebbe visto stramazzare un operaio, si ripose bocconi, ridendo d'un riso selvaggio. Quell’operaio rotolava una dopo l'altra le pietre di una vecchia casuccia, che poi raccolte dalle lavoratrici andavano a riempiere il terreno impozzato; e quella casuccia, un giorno, era stata del pecoraro. Ora egli l'amava come si amano le vecchie nonne; quando scendeva nella valle, godeva di andarsi a sedere sur un largo macigno dove s'erano seduti a loro volta il babbo e la mamma a guardare le stelle ed a predire il bel tempo. L'erica trionfatrice ne aveva invaso le mura crollate; il musco ne ricamava le pareti; le lucertole e i ramarri strisciavano fra le erbacce del pian terreno: eppure egli vi si sentiva bene, come dopo una lunga giornata di lavoro, si compiaceva all'ombra d'un ontano. Veder disfare anche quelle povere mura era troppo, e aveva tirato.... 

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Il Poeta di Maria Antonietta Bafile

di Acque Sacre

A Te Mauro

con affetto

Maria Antonietta 

IL POETA

 

 Grande Deus, come ogni sera, prima di coricarsi passa in rassegna sul suo PC i principali avvenimenti della giornata appena trascorsa, in compagnia di Petrus, suo fedele collaboratore di sempre.

Apre la sezione “foto”… In un bar della città di Sulmona un gruppo di amici chiacchiera allegramente attorno ad un tavolino imbandito di “spizzichini” e aperitivi…

— Grande Deus, non tutto è perduto: c’è ancora qualche anima buona e idealista che crede ancora nell’Amicizia e nella Solidarietà… 

 Vero Petrus, che bella fiaba è questa…fiaba di vita vissuta, non credibile certamente per quelle persone che, prese dalla smania di adorare e inseguire il Dio Denaro e la propria megalomania, hanno perso per strada la parte più bella della loro anima: la bellezza degli ideali di Amicizia, Fratellanza, Solidarietà… 

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Ciucarella di Domenico Ciampoli

di Acque Sacre

Una novella di Domenico Ciampoli dedicata alla "Ciucarella" una povera bimba, affamata di cibo e di amore, che accetta di diventare il ciucarello  di Pippo, il figlio del Sindaco del paese: «Brutto mestiere, far la ciucarella: bisognava ubbidire al padroncino, proprio come un asino, portarlo sulle spalle, scherzare con lui, per lui subire i castighi e non lagnarsi, non piangere mai...  A patto dunque di diventare la schiava, le darebbero, com'è d'uso, quanto già la signora le aveva promesso: una vestina nuova e da mangiare».  
La novella è tratta dalla raccolta Cicuta di Domenico Ciampoli.   

Il file è scaricabile in versione pdf Ciucarella

Su Domenico Ciampoli

 

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La Maggiorana di Domenico Ciampoli

di Acque Sacre

   La notte dell'ultimo d'Aprile è costume vecchio quanto l'Orco – tra le nostre montagne si sta a veglia come alla vigilia del Natale; ma su le rupi e su i poggi non si accendono i grandi fuochi che splendono tra la neve il ventiquattro Decembre; sì bene sull'aia, quando il tempo è bello  e lo è quasi sempre di quel giorno  tutti gli abitanti del villaggio fanno a gara per metter fuori le primizie della stagione, e, adornatele di fiori, aspettano che le colga la rugiada dell'alba, accoccolati in giro a raccontar panzane e storielle e favolette da tener desti anche i sordi.
   Ed è una vera festa a chiaro di stelle, perché si cantano a coro gli stornelli montagnuoli, si suonano pifferi e zampogne, e spesso, se capita il destro, si mette su pure il ballo delle trecce, ch'è una grazia a vedere.

 

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Cicuta di Domenico Ciampoli

di Acque Sacre

Molte volte la Muta, protagonista principale della novella Cicuta,  si era soffermata a scrutare l'orizzonte chiedendosi: chi sa che bellezze dovevano essere laggiù tra quella nebbietta turchiniccia, che nelle trasparenze mostrava montagne azzurrine piccole piccole. Voleva dire a Rico Falco di condurla una volta almeno per quelle lontananze: e giunta là, forse ne vedrebbe altre e altre senz’arrivare forse mai a sapere dove fosse il babbo... Ma  quello scavezzato di Rico Falco aveva ben altro per la testa, eppure la nonna l'aveva messa in guardia: «che il diavolo si trasforma certe volte in un bel giovinotto per tirare al peccato le fanciulle; e le raccomandava appunto di guardarsi dal diavolo». 
La Cicuta dà il nome ad una raccolta di novelle ambientate in Abruzzo pubblicate da Domenico Ciampoli nel 1884.  
Per leggere la prima, in formato pdf, cliccare su  Cicuta  

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Trecce Nere

La Penna

di GIAN PIERO STEFANONI

Chi viene dice
che qui non c’è nulla.
Ma seduti vegliamo
rincorrendo dalle case i versanti.
Ci incavano stelle,
vaghe ombre in attesa,
preghiamo con i Santi
allungati alle rocce.

 

Chi vè po’ dice / ca qua ’n ce sta nijènte. // Ma as-
settàte facéme la véje / arencurrènne da le case le sderrúpe. // ci-
affòssene le stelle, / quacche mbríje a lu spettà, / auníte a le Sante ce ’ncavéme a le rocce.

 

Chiamandola affettuosamente la Penna, come fanno i suoi abitanti, Gian Piero Stefanoni dedica una breve poesia a Pennadomo.
La versione in dialetto è opera di MARIO D’ARCANGELO.

Tratta dalla raccolta di poesie Lunamajella del poeta e critico GIAN PIERO STEFANONI
Lunamajella di Gian Piero Stefanoni

Non si lavora nel giorno della festa di Sant'Anna!

di Acque Sacre

Lavorare nel giorno di Sant'Agata era stato fatale per la nostra contadina di Città Sant'Angelo, si veda in proposito La Leggenda di Sant\'Agata o della Piomba, una sorte analoga toccò anche ad un trebbiatore di Raiano reo di aver lavorato nel giorno dedicato a Sant'Anna.

II.LA FESTA DI SANT'ANNA.

La festa di Sant'Anna è una delle feste principali. Chi lavora nella festa di Sant' Anna, se ne pentirà. Lo sa quel povero contadino di Raiano, che volle trebbiare il suo grano nella festa di Sant'Anna! Trebbiava il grano allegramente, e gridava ai cavalli: Zah! zah! zah! quah! quacquaràh ! S' incontrò a passare un altro contadino, e gli disse: — Guai a te! guai a te! Oggi è Sant' Anna, e lavori  — Il trebbiatore crollò le spalle, e rispose : — E che mi devo partorire io? — Allora l' aia si sprofondò e ingoiò il padrone, i cavalli e il grano! E in quel luogo nacque un laghetto che si chiamò la Quaglia, perchè, nel giorno della festa di Sant'Anna, chi va alla sponda del laghetto e si mette a sentire, sentirà ripetere la voce del padrone dell'aia: Quah ! quacquaràh ! che somiglia alla voce della quaglia. Ma chi vuole sentire questa voce, dev' essere senza peccato mortale.

 Madre della Vergine, titolare di svariati patronati, invocata nei parti difficili,  Antonio De Nino riporta altri due brevi racconti sulla vita di Sant'Anna:  

I. 
SANT' ANNA MADRE DELLA MADONNA.  


Ecche, Sant' Anne a 'n' urtecelle Steve
 Piene de doglie e de malanconie. 
Se volta al ciele e ce vidde n' ancelle
 Che sopr' a r' arbre ce ficea ru nide;
 Se volta e dice: — Ah, Segnore, Segnore!
So' li aucelli, e pure fanne famiglie:
I' che so' donna non la pozzo fare?
— Calò r' Angele da ni ciele e dicette:
 — Zitte, Sant'Anne, ne nte dubetare;
Tu farraji 'na Fijola tanta care, 
Reggina de rru ciele s' ha da chiamare;
 E po' farrà' 'nu Fije tante belle, 
Patrone de rrn ciele e de Ila terre. — 
Gisù, Marije, Sant' Anne!
Quanne i' dorme me guardete; 
'Cciò 'l nimmiche nne me 'nganne: 
Gisù, Marije, Sant' Anne!

Ecco, Sant'Anna a un orticello stava  
Piena di doglie e di melanconie. 
Si volta al cielo e ci vide un uccello
Che sopra all'albero ci faceva il nido; 
Si volta e dice: — Ah, Signore, Signore! 
Sono gli uccelli, eppure fanne famiglia:
 Io che son donna non la posso fare? — 
 Calò l'Angelo dal cielo e disse: 
— Zitta. Sant'Anna, non ti dubitare; 
Tu farai una Figliuola tanto cara,
Regina del cielo si ha da chiamare; 
E poi farai un Figlio tanto bello, 
Padrone del cielo e della terra.
— Gesù, Maria, Sant'Anna! 
Quando io dormo guardatemi ; 
Acciò il nemico non m' inganni:
Gesù, Maria, Sant' Anna !

 

Anche Sant'Anna mandò la figlia a scuola, fino al giorno in cui la maestra la mise in punizione: 

 III. 
LA MADONNA ALLA SCUOLA. 


Sant'Anna mandava la figlia a scuola. Tutte le altre bambine facevano chiasso, ma la piccola Maria stava sempre al suo posto, con gli occhi bassi. A mezzogiorno tornava a casa a mangiare; e per la via teneva sempre gli occhi bassi, nè si fermava mai con le compagnucce. Poi riandava a scuola; e tornava a casa la sera, sempre nello stesso tenore.
La maestra disse, un giorno, alle bambine: 
— Bambine mie, raccontatemi che avete sognato la scorsa notte. — Ognuna raccontò il suo sogno. Quando toccò alla piccola Maria, non voleva raccontare il suo sogno. Ma la maestra la rimproverò, e la minacciò. Finalmente la piccola Maria parlò : 
— Io mi son sognata che dovrò essere sposa dello Spirito Santo e madre di Gesù Cristo. — La maestra alzò la voce: — Che ti dici, brutta prosontuosella? Per penitenza, oggi non tornerai a casa a desinare! —
La piccola Maria si rassegnò, e rimase sempre con gli occhi bassi. La sera tornò a casa, e Sant'Anna le disse: — Hai desinato con la maestra? — Rispose di no; e raccontò tutto alla mamma. E Sant'Anna gridò: — Che cattiva maestra! Le possa nascere un piede di capra! — E alla maestra nacque subito un piededi capra. Sant'Anna non mandò più la figlia a scuola; ma invece la rinchiuse in un monastero.

O Marije, quando te faciste giuvenette,
Calò l'Angelo da llu ciele,
Te venose a 'nnunzià'; 
E t'annunzie,e te s'inchine:
Salve Vergene Regine.

O Maria, quando ti facesti giovanetta,
Calò l'Angelo dal cielo,
Ti venne ad annunziare;
E t'annunzia e ti s'inchina:
Salve Vergine Regina

 

 

Bibliografia: Antonio De Nino, Usi e Costumi Abruzzesi, vol. IV, Firenze, Tipografia Barbera, 1883, volume IV, pp. 11-15.

Foto:

Lago la Quaglia: gentile concessione archivio fotografico della pagina Facebook Memories: officina dei ricordi e delle immagini
Nascita della Vergine, Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova.

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La fonte

di Cesare De Titta

Che ccóse dice l'acque de la fonte?
Mo t'apiense ca ride e mmo ca piagne.
L'ajje sentite 'm mèzz'a la campagne,
sott' a la fratte e ppo' sott'a lu ponte:

fa gne che tté tante secrite,
tante recuorde, e cchiame e ss'annascónne...
Che ccóse dice l'acque che s'affónne
sott' a li chiuoppe, dentr' a li cannite?

Da tante tèmpe l'acque va 'lu mare,
la vita nostre è tutte nu mistére.
I'quande guarde 'n ciele cierte sére
che nen ci sta la lune e ll'arie è cchiare,

e vvéde che stélle che n'té fine
e ssènte che la fonte che nen cèsse,
i'mi ci pèrde, gna mi si purtésse
verse lu mare l'acque che ccamine.

M'arevé 'm mènte l'anne ch'è ppassiète
e cquanta ggiuventù ècce è mmenute,
c-i-à rise, c-i-à cntate, e ss'è pperdute
nu ggiorne a ccampesante tra la créte.

Quill'ére comme nnu', quill' a sentite
comme nnu' stu parlà' misterïose,
quille pure vulé sapé' caccóse
e pprime de sapérle se n'è ite.

Le vite nuostre passe a un' a une
e ccome ll'acque se ne va luntane.
Da tante tempe parle sta funtane:
adnun quelle che ddice ne' le sa neçiune.


La fonte - Che cosa dice l'acqua de la fonte/ or ti par che rida, ora che pianga./ L'ho sentita là in mezzo a la campagna,/ sotto la sepie e poi là sotto il ponte:// fa com'un ch'abbia in cuor tanti segreti,/ tanti ricordi, e chiami e si nasconda.../ Che cosa dice l'acqua che s'affonda/ là sotto i pioppi, là dentro i canneti?// Da tanto tempo l'acqua corre al mare, la vita nostra è tutta nel mistero. / Io, quando guardo in alto certe sere,/ che non esce la luna e l'aria è chiara, // e vedo quelle stelle senza fine/ e sento quella fonte che non cessa, / io mi ci perdo, quasi mi traesse/ giù verso il mare l'acqua che cammina. // Mi tornano al pensiergli anni passati / e quanta gioventù  è qui venuta, / ci ha riso,ci ha cantato, e s'è perduta / un giorno a camposanto tra la creta. // Quelli eran comenoi,quelli han sentito / come noi questo suon misterioso,/ anche quelli volean saper qualcosa / e prima di saperla son partiti. // Passan le vite nostre ad una ad una / e come l'acqua se ne van lontano. / Da tanto tempo parla sta fontana: / quello che dice non lo sa nessuno. // (traduzione dell'autore)

La poesia La fonte è opera di Cesare De Titta.
Umanista, filologo e poeta dialettale, Cesare De Titta nasce a Sant'Eusanio del Sangro il 27 gennaio 1862. Tra le sue opere si ricordano la traduzione delle Elegie romane di Gabriele D'Annunzio, di cui era amico  (Lanciano 1900; nuova ed., Milano 1905); le liriche d'amore raccolte nelle Canzoni abruzzesi (Lanciano 1919), Nuove canzoni abruzzesi (Lanciano 1923), Gente d'Abruzzo (Firenze 1923), Terra d'oro (Lanciano 1925). Per il teatro dialettale fece una traduzione della Figlia di Jorio e drammi e commedie d'argomento abruzzese: Teatro dialettale abruzzese: A la fónte e La Scuncòrdie (Lanciano 1920) e Teatro (2 voll., Lanciano 1924).  

Foto: Fontana de lu Callarare, Lama dei Peligni

 

 

 

 

 

 

 

San Cataldo

di Acque Sacre

Mentre a Palena si venerava l'acqua di San Cataldo, a Sulmona se ne raccontavano di belle sul Santo irlandese...   

XXI.
SAN CATALDO. 

Cataldo era un ladro, come si dice, capato al mazzo; e se la faceva sempre con altri ladri. La moglie sua però era buona, e non cessava di fare prediche al marito, affinchè abbandonasse quella brutta via. E dagli oggi, e dagli domani, Cataldo si veniva cambiando. La moglie raddoppiava il lavoro e faticava di giorno e di notte per non far mancare nulla in famiglia e per persuadere il marito che si poteva tirare innanzi senza le ruberie.
Cataldo, alla fine, fece la santa risoluzione di non andare più a rubare. 
Un giorno, gli altri ladri, suoi vecchi compagni, con belle maniere lo condussero fuori dell'abitato, e l'uccisero; perchè temevano dovesse rivelare alla giustizia i loro furti. Poi portarono il cadavere alla cantina del morto e lo messero per pogginolo sotto una botte di vino. La moglie, in quel mentre, era uscita di casa per le sue faccende. 
Passa un giorno, passano due giorni, ne passano tre, passa una settimana; e Cataldo non tornava a casa. La moglie disse: — Ali! è riandato per quella brutta via ! Gesù Cristo lo possa illuminare! — 
Erano passati tre mesi, e Cataldo non si vedeva. La moglie pensò di vendersi un pò di vino por fare le provviste di famiglia. Vendi e vendi, e il vino non finiva mai. La gente diceva: — Come può darsi che un botticello possa dare tanto vino? — E il vino non finiva mai; tanto che si cominciò a pensare a un miracolo. Tutti gridavano: — Miracolo ! miracolo! — 
Andò il papa con tutti i cardinali in processione alla casa di Cataldo. Visitò tutta la cantina, e non ci fu nulla di straordinario. Mentre stava per andarsene, vide un giglio sotto il botticello. Fu alzato il botticello, e si trovò che quel giglio usciva dalla bocca di Cataldo. Il papa allora gridò: — Cataldo è santo! —

 

Tratta da Antonio De Nino, Usi e Costumi Abruzzesi, vol. IV, Firenze, Tipografia Barbera, 1883, volume IV, pp. 195.

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Per quanto riguarda il culto di San Cataldo a Palena Il culto delle acque sacre: Fonte di San Cataldo a Palena

Ti amo

di Maria Antonietta Bafile

Ti amo
mio dolce amore
impossibile...

Ti amo
mio dolce amore
partito...

Ti amo
mio dolce amore
lontano...
troppo lontano
per raggiungerti...

Ti amo
mio dolce amore
desiderato,
troppo desiderato
da morire con te

per raggiungerti
nell'eternità...
tra le stelle
sulla nostra
amica Luna...

 

Poesia
Maria Antonietta Bafile

Dipinto 
Tra memori speranze di Roberta Papponetti
Olio su tela
Mis 40x60

CRISTO PERDONA E SAN GIOVANNI NO

di Acque Sacre

Ostinato nell'esercizio delle gambe e della pazienza, girandolando e raccogliendo ancora altre neglette tradizioni del nativo Abruzzo, Antonio De Nino portava a compimento anche un IV volume, dedicato alle Sacre leggende.... Le storie rilette a distanza di 135 anni dalla loro stesura sicuramente ci strappano un sorriso.  Quanta credulità e fantasia ha il popolo!  

 XII. 

CRISTO PERDONA E SAN GIOVANNI NO.

Un giovane e una giovane si amavano svisceratamente; ma nessuno lo sapeva. La giovane però dovè sposare un altro. L'abbandonato sposo divenne malinconico, magro. 
Quando la giovane diede alla luce un bambino, il primitivo sposo volle tenerlo a battesimo; voleva conchiudere un comparatico, giacché non potè conchiudere il matrimonio. 
Il compare e la comare si volevano bene; ma ognuno stava al suo posto. Né il marito ebbe mai di loro il menomo sospetto; tanto che spesso restavano soli. Un giorno la comare allattava il bambino. Disse il compare: — Mi permetti ch'io baci il comparuccio? —  Bacialo pure. — compare si curvò, baciò prima la bocca del comparuccio e poi il seno della comare. La comare si fece rossa, e sclamò : — Ah, compare! Non ti ricordi che Cristo perdona e San Giovanni no? Vatti a confessare! — 
Il compare trovò un confessore, e gli si gettò ai piedi: — Padre, mi confesso, mi pento e mi dolgo del mio peccato: ho baciato il seno alla mia comare! — Il confessore si fece la croce, e lo respinse tutto spaventato. Successe la stessa scena con altri confessori. Allora il compare, spaventato anche lui, andò dal papa e si confessò. Il papa disse: — Ti assolvo, quando avrai fatta la penitenza che ti do. Eccoti una pianticella che deve diventare un albero. Torna al paese e piantala; e innaffiala ogni giorno col guscio di una lumachella. La pianta crescerà a poco a poco, e metterà fiori e frutti. Appena si maturano i frutti, coglili, e mettili a una cestarella. Poi va' alla porta del paese, e dalli ai primi che entrano di buon mattino. — 
Il compare si partì rassegnato; e fece quanto gli aveva detto il papa. La pianta crebbe, fiorì e messe frutti, e i frutti maturarono. Allora colse i frutti, e furono non più di tredici. Una mattina per tempo colse i tredici frutti e si piantò alla porta del paese. 
I primi a entrare furono tredici persone in un gruppo. Egli diede un frutto per ciascuno. L' ultimo non volle riceverlo. Il pover' uomo gli si gettò ai piedi, supplicandolo ad accettare. Ma l' altro era ostinato. Il compare penitente continuò a pregare, e cominciò anche a piangere. Quelle persone erano Gesù Cristo e gli Apostoli, e chi non voleva accettare il frutto, era San Giovanni. Il compare stava ancora in ginocchio. Finalmente, tieni e tieni, San Giovanni si denudò il petto, e gli fece vedere una ferita, dicendo : — La vedi questa ferita? Questa me la fece il bacio dato alla comare! —

La leggenda veniva narrata, come precisato da Antonio De Nino, a Pettorano, Scanno, Sulmona e altri paesi della Valle Peligna.

Foto: gentile concessione archivio fotografico della pagina Facebook: Memories: officina dei ricordi e delle immagini

Tratta da Antonio De Nino, Usi e Costumi Abruzzesi, vol. IV, Firenze, Tipografia Barbera, 1883, volume IV, pp. 83-85.

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Come l'acqua che scorre

di Giovanni Lufino

Come goccia d'acqua,
cade dalla bianca roccia,
così sul tuo bel viso,
scende una dolce lacrima.

Sei fresca e trasparente,
come fanciulla adolescente,
pavida ma travolgente,
come l'acqua del torrente.

Salti tra le rocce,
come una danzatrice,
gagliarda e vigorosa,
come l'acqua che scorre.

Danza, danza bambina,
nell'acqua come ballerina,
come nel valzer di Strauss,
nella sua armoniosa sinfonia.

Danza leggera e sinuosa,
bella come una sposa,
acqua dolce che sfocia
nell'immenso oceano.

 

Sempre su Giovanni Lufino  Il lupoDai monti al mare di Giovanni Lufino,  I pastori in terra d\'Abruzzo a cura di Giovanni Lufino e Dino Di Pietro

 

 

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Le donne di Scanno. Tratto da Agostinone E., Altipiani d'Abruzzo

Riportimo un brano di Agostinone Emidio, maestro, giornalista fotografo e politico nato a Montesilvano nel 1879 su Le donne di Scanno. Tratto da Agostinone E., Altipiani d'Abruzzo

Nato a Montesilvano il 13 maggio 1879 , maestro di scuola elementare, fu giornalista e deputato per il collegio di Teramo (1919) e dell'Aquila (1921).
Nel 1911, collaborò alla fondazione del periodico milanese "La cultura popolare", organo della Unione italiana dell'educazione popolare, di cui fu condirettore, e collaborò a "La difesa delle lavoratrici", uscito a Milano nel 1912, e a "La Critica sociale".
Si occupò dei problemi della scuola, dell'istruzione e dell'emancipazione delle classi lavoratrici. 
Pubblicazioni: 
Dalla terra d'Abruzzo. Otto lettere al giornale “Lombardia” di Milano, Milano, R.Sandron, 1905; riedito da  Associazione culturale Amici del Libro Abruzzese, Montesilvano, 2000
(con la collaborazione di  Enrico Giuriati), Storia della legislazione scolastica sub-elementare, elementare e normale, Treviso, Zoppelli, 1907
L'agonia di Messina. Cento illustrazioni da fotografie di Emidio Agostinoni, Giacomo Brogi e Mario Corsi, Roma, L'Italia industriale artistica, 1908
Il Fucino, Bergamo, Istituto italiano d'arti grafiche, 1908
Altipiani d'Abruzzo, Bergamo: Istituto italiano d'arti grafiche, 1912

La Fonte

Che ccóse dice l'acque de la fonte?
Mo t'apiense ca ride e mmo ca piagne.
L'ajje sentite 'm mèzz'a la campagne,
sott' a la fratte e ppo' sott'a lu ponte:

La fonte

 

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Bradamante al vento

ATTENZIONE EVENTO RINVIATO AL 5 LUGLIO 2018

Pescara 5 LUGLIO ore 19,15  a Casa D'Amico, in via Sacco 56/58  "Bradamante al vento!" , la festa di apertura dell'Associazione Culturale Bradamante

Teatro Racconto Territori. Un teatro che affonda le radici nella memoria e nel territorio, inteso come moltitudine di persone, paesi, natura e identità culturali. ​Bradamante è vento e terra dei racconti erranti... 
All’interno dell’Associazione gravitano musicisti, attori, ricercatori che collaborano in maniera indipendente o con enti pubblici e privati, figure professionali del mondo del turismo sostenibile, della natura, della cultura.
Un festa aperta a tutti e assolutamente all'insegna della condivisione e della convivialità per darvi un piccolo assaggio delle attività che proponiamo, delle ricerche in corso, delle rassegne e degli spettacoli.

PROGRAMMA

14 giugno 2018- 19:00 apertura festa

ore 19:15  Racconta Storie presenta "Bradamante e Ruggero", l'incontro, l'amore, le gelosie, le battaglie tratte da "L'Orlando Furioso" di Ludovico Ariosto.

A seguire, lettura e condivisione del "Manifesto di un Teatro Errante"

20:00 Cena a buffet tra gli alberi di fico

21:00 "Paesi in forma di rosa", presentazione della rassegna teatrale estiva tra Majella e Morrone

21:30 "Nuova Zita" proiezione del cortometraggio girato su un peschereccio dal filmmaker Antonio Di Biase-

22:00 Massi Di Carlo con un estratto da "Canto alla Rovescia"

A seguire...estrazione a premi! Non poteva mancare una piccola lotteria!
La festa è aperta a tutti e si terrà a Casa D'Amico, in via Sacco 56/58 nel popolare quartiere di Villa del Fuoco, meglio conosciuto come Rancitelli, a Pescara. La famiglia D'Amico ci ospiterà nel suo giardino, tra gli alberi di fico e, almeno per questa sera, le galline della signora Pina rimarranno sveglie a festeggiare con noi. Una casa che, dal 2012, ospita le prove dei nostri spettacoli, interrotte solo dal cantare dei galli e dalla proverbiale generosità di Pina e del signor Francesco per la pausa caffè...
Non occorre prenotare, l'ingresso è libero. Chi vorrà potrà contribuire, durante la serata, con un'offerta libera a sostegno delle attività dell'Associazione.

Parcheggio
se deciderete di venire in auto o in moto, potrete utilizzare il parcheggio della chiesa dei Santi Angeli Custodi, al quale si accede da Via Sacco e poi raggiungerci a piedi, è vicinissimo. Se verrete a piedi o in bici, potete entrare direttamente, troverete il cancello aperto, come sempre.Vi aspettiamo con tanta accoglienza!

VIVA IL TEATRO! VIVA BRADAMANTE!

A dialogo nel Parco, sabato 24 marzo

Il Parco Nazionale della Majella, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila promuove sabato 24 marzo 2018 un incontro pubblico, finalizzato a illustrare tutti i dettagli del Progetto sulla convivenza uomo-orso e sulla conservazione dell’orso bruno marsicano. 
“A dialogo nel Parco” costituisce  un'interessante  proposta di comunicazione e partecipazione per la gestione condivisa del territorio. 

La Befana

La mia è vecchina strana,
è ghiotta di spaghetti alla "matriciana"...
ogni anno dalla sua Luna si allontana...

La sua scopa di saggina afferra
e viene sulla nostra terra
a portare la Pace e non la Guerra.

Nel suo sacco non pistole, nè pugnali,
anche se di plastica e "armatoriali"
e sparano colpi artificiali...

A noi adulti manda un messaggio:
"Riuniamoci in assemblea e con coraggio
invitiamo le grandi industrie che i nostri bambini hanno in ostaggio

a fabbricare solo bambole, trenini, palloni,
cucinine, biliardini e costruzioni...
giocattoli che aprono la fantasia a sane emozioni!